Una balla tendenziosa costruita appositamente per infangare i partigiani e alleggerire le azioni fasciste «Bruciata nei genitali e torturata per puro piacere» Ecco come nasce la bufala de ‘la levatrice di Trausella‘
Potremmo cominciare col dirvi che questa nella foto è Giuseppina Ghersi, una semplice levatrice di Trausella, un paesino in provincia di Torino. Potremo continuare, dicendovi che la poveretta fu prima schernita da un’orda di partigiani vendicativi, che fomentati dalla rabbia la umiliarono denudandola difronte ai suoi paesani, poi la presero a pedate e infine la torturarono.
Chi è la donna nella foto?

Certo potremo dirvelo, ma non lo faremo perché non c’è alcuna levatrice e la storia non è mai successa! Questa nello specifico, intendo. È una bufala! Una di quelle tante fake che popolano il web, rendendo vero anche l’impossibile.
Postata qualche tempo fa su internet da un simpatizzante del Ventennio con lo scopo di addolcire le azioni fasciste esacerbando quelle partigiane. Ma partiamo con ordine. Per prima cosa questa nella foto non è Giuseppina Ghersi, bensì una donna ebrea vittima dei pogrom. Questo non giustifica che una cosa sia meglio dell’altra, tuttavia è giusto fare chiarezza su chi fosse la poveretta finita nelle mani dei nazisti nel 1941 a Lepoli, Ucraina, dopo la rottura del patto Molotov-Ribbentrop.
La forza della mala informazione
Oltre a fuorviare la realtà dei fatti, chi ha inventato questa bufala l’ha fatto in malafede. Senza rispetto per la storia e le sue vittime. Il problema, tuttavia, non è solo questo racconto inventato di sana pianta, ma il credito che gli è stato dato da moltissimi creduloni del web, che tra: «I partigiani erano peggio dei fascisti, mio nonno me lo ha sempre detto» e «’Lui’ ha sempre fatto cose buone», hanno fatto rimbalzare questa fake da un profilo all’altro. Ma andiamo avanti. La fantomatica levatrice — sempre stando a quanto si apprende dalla bufala —, sarebbe stata un’informatrice dei fascisti, molto vicina ad un ipotetico gerarca di cui non si conosce né il nome né il cognome.

Il racconto si arricchisce di particolari ignobili. Il post spiega che un gruppo di partigiani l’avrebbero denudata in piazza e le avrebbero bruciato la vagina con del cotone imbevuto di alcol. Una tortura orribile e vergognosa, se mai fosse realmente accaduta, non c’è che dire, la quale getterebbe disonore su chiunque (partigiani compresi). Eppure quando una notizia volutamente deviata viene lanciata in rete, in questo caso per fini politici, è pressoché impossibile fermarla. Ci sarà sempre chi ci crederà e le darà il giusto risalto, infine senza prima informarsi sull’accaduto — perché la ricerca richiede tempo e un minimo sforzo intellettivo —, la posterà a sua volta facendola diventare “reale”.