Continua a crescere l’antisemitismo sui social. Negazionisti della shoah e battute sugli ebrei fanno sventolare la svastica a suon di like
Sui social si sa, tutto è lecito. Ingiurie, sputtanamenti e minacce ormai fanno parte del quotidiano a tal punto che ci siamo abituati. Parole di disprezzo passano dal profilo del padre a quello del figlio, come una doverosa eredità. Non importa se quando si pubblica quest’odio sotto vetro si denigra una cultura, una religione e un’etnia; l’importante è colpire con decisione. Pubblicare immagini photoshoppate dei lager, creare meme delle camere a gas e scrivere post contro chi si è convinti sia un diverso diverte la nuova stirpe delle SS-Virtuellbataillon. Il problema tuttavia è la mancanza del ricordo in cui ognuno di noi, almeno per un giorno, è stato un diverso in un modo o nell’altro. Però chi ha tatuato la svastica sul proprio machismo lo ignora: l’unico scopo è acchiappare like.
“Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria. La peste è spenta, ma l’infezione serpeggia. Sarebbe sciocco negarlo”
Citazione di Primo Levi


L’incongruenza dei nazi da tastiera
Per diffondere questo surrogato di antisemitismo il nazi da salotto usa Facebook, affinché l’amico dal tirapugni di ferro sia orgoglioso di lui e della sua tenacia 2.0; dimenticando però che il contenitore in cui la propaganda viene condivisa è proprietà di un ebreo. Dopotutto si sa: l’incoerenza è figlia dell’ignoranza. La stessa ignoranza che fa dubitare al razzista uncinato nelle capacità e nell’ingegno altrui, convinto del fatto che se non c’è riuscito lui della “rasse gewählte” (razza eletta) non può riuscirsi nessun altro. Probabilmente è proprio per questa convinzione che denigra la scienza con manganellate verbali, ignaro che se i progenitori della sua stirpe fake ariana non hanno preso la polio non è per culo bensì è grazie a un vaccino prodotto da uno ebreo.


Pubblicare odio genera odio. Chi lo fa è consapevole che con un solo post si denigrano milioni di persone e altrettante vittime. Basta un semplice commento per infangare anche la memoria di moltissimi italiani, crepati per la «causa dell’Impero italico». Elencare i soliti stereotipi è roba vecchia, ma dannatamente attuale. Vivere con la convinzione che le minoranze siano il male è sintomo di paura, così per esorcizzare il problema e apparire forti si nega la shoah e si inneggia gli sconfitti del Reich, fiduciosi che la prossima volta andrà meglio. Quest’epoca scandita dai social ci ha fatto capire quanta ripugnanza e arretratezza culturale c’è nel nostro Paese, lasciando agire spesso impunemente chi si autocelebra Fuhrer del web, scegliendo chi dev’essere purgato e chi no in virtù del proprio credo.


Chi è perfetto?
Diffondere menzogne è tipico di chi non ha nulla da propagandare. Dai manifesti che nel ’38 discriminavano gli ebrei a condividere lo stesso odio sui social non è cambiato nulla. È solo mutato il progresso, ma la sostanza non cambia. La stessa menzogna che fa sentire queste persone migliori del «negro», del «giudeo» o del «frocio», senza considerare che se la svastica sventolasse ancora probabilmente anche gli autori dei post verrebbero eliminati, perché non abbastanza ariani. La convinzione di credersi perfetti però non dipende da noi, ma da chi malauguratamente in un determinato periodo storico ha il potere di scegliere chi deve salire sul prossimo treno bestiame e chi no.

Purtroppo il sentimento del «super uomo» è una prerogativa di chi è sempre stato l’ultimo della fila. Da sempre deriso a scuola e denigrato nello spogliatoio a causa del pene piccolo. A postare idiozie però non ci sono solo portatori sani di disagio sconosciuti. Anche illustri personaggi televisivi violentano il ricordo dell’olocausto, come ad esempio lo psichiatra Alessandro Meluzzi, che per sentirsi parte del branco e brucare lo stesso fieno, nel suo profilo Twitter pubblicò il cancello di Auschwitz photoshoppato. L’immagine faceva riferimento alla cosiddetta «dittatura sanitaria», non alla shoah. Tuttavia il cattivo gusto e la mancanza di rispetto per chi è passato attraverso quel cancello è tipico di chi è sempre stato l’ultimo della fila.
